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1460 “Adorazione dei Pastori” di Alesso Baldovinetti.

“Adorazione dei Pastori” di Alesso Baldovinetti.

A cura della Prof.ssa Elena Nesti docente di Storia dell’Arte e materie letterarie presso il Conservatorio Santissima Annunziata di Empoli.

Il chiostrino dei voti della basilica della SS. Annunziata di Firenze racchiude, tra le tante opere, un dipinto murale visibilmente più arcaico degli altri e dalla “maniera un po’ secca e crudetta”, come ebbe a dire il Vasari parlando dello stile del suo autore, Alesso Baldovinetti. Si tratta di un’Adorazione dei pastori. Questa immagine è la prima che fu dipinta sui muri del chiostro dove tradizionalmente venivano lasciati gli ex voto.

Come collocazione si scelse (probabilmente la scelse Biagio d’Antonio, a quei tempi priore del Santuario della SS. Annunziata) il lato opposto della stessa parete su cui è dipinta l’Annunziata ovvero l’immagine della Vergine miracolosamente apparsa alla metà del ‘200 all’ignoto pittore che, incapace di raffigurare il volto radioso di Maria, si era addormentato sfinito. Sarà sembrato senz’altro naturale, dovendo iniziare una decorazione, partire proprio da lì, come per sottolineare l’importanza di quella parete rispetto alle altre. Una tale priorità tuttavia non fu più leggibile dal momento in cui Cosimo Rosselli, Andrea del Sarto, il Franciabigio, il Pontormo e il Rosso Fiorentino realizzarono le immagini delle altre lunette.

Il Baldovinetti ricevette l’incarico nel 1460 e nel 1462 completò l’opera.

Entro una cornice formata da racemi e ritratti clipeati, si apre un paesaggio arioso chiuso in lontananza dai profili arrotondati delle colline; vi scorre un fiume dalle anse ampie, che si perde nella pianura ravvivata da una vegetazione rarefatta, domata dalla mano dell’uomo che vi ha costruito una città fortificata. Vi si affaccia, scrutando, un pastore ben piantato sulle gambe che, a differenza del compagno a riposo appoggiato ai muri cascanti di un rudere, presta attenzione ai cenni di un angelo svolazzante. I due pastori li ritroviamo all’estrema destra del dipinto mentre, avendo seguito i messaggeri divini, con passo saltellante e le mani giunte raggiungono una capanna diroccata al cui interno hanno trovato riparo il bue e l’asinello. Appena fuori dalla soglia giace, appoggiato sul terreno petroso, il piccolo Gesù. Di fronte a lui Maria inginocchiata prega, mentre Giuseppe, stanco per il viaggio e per l’assistenza durante il parto, dorme dopo aver abbandonato frettolosamente il suo bastone da viandante. Ciò che colpisce in questo dipinto, abbondante di dettagli come tutte le opere del Baldovinetti, è lo spazio dedicato all’edera: “Vi contraffece ancora una ruina d’una casa di pietre dal tempo muffate e dalla pioggia logore e consumate, con una radice di edera grossa che una parte di quel muro ricopre, nella quale imitò colore del ritto e del rovescio delle foglie con diligenza e con pazienza. […] e mise tempo a infinito a contraffare una serpe che camina per il muro”. 

Perché tutto questo spazio a quell’edera?

Questa pianta è un simbolo che, come molti altri, passò dalla tradizione pagana a quella cristiana: nelle opere classiche è associata a Bacco, di cui costituisce la corona, poiché è la pianta che protesse il neonato dio dall’incendio che incenerì la madre Semele, colpevole di essersi unita a Giove e per questo punita da Giunone. L’edera ne è l’attributo principale, come lo è la vite, di cui costituisce l’antidoto: gli antichi ritenevano addirittura che un decotto di edera potesse guarire dai postumi di una brutta sbronza. Ma è anche simbolo di amore eterno e di fedeltà. Quali possono dunque essere le ragioni di tanta insistenza? Si tratta semplicemente di uno stratagemma per nascondere quel muro così ingombrante oppure vi è qualcosa di più? Certo il legame tra il mito di Bacco e la figura salvifica di Cristo è stato più volte sottolineato, accettato o decisamente negato. Di sicuro sappiamo che Cristo è “la vera vite” (Giovanni, 15, 1) e che il vino consacrato è il suo vero sangue. L’edera, essendo così fortemente associata alla vite e al vino, potrebbe essere un modo, comprensibile ai fedeli del XV secolo, per richiamare la passione, la morte e la resurrezione di Gesù. Oppure, trovandosi questa immagine proprio alle spalle di quella miracolosa Annunciazione, potrebbe veramente significare amore eterno e fedeltà. Se, infatti,  l’assenso di Maria al saluto dell’arcangelo Gabriele è l’inizio dell’avverarsi della promessa fatta da Dio all’uomo, la Natività ne è il vero e proprio compimento: essa è il simbolo dell’amore eterno che Dio ha per l’uomo e della fedeltà con cui Egli rispetta il patto con l’uomo. È Dio quello che rimane fedele all’allenza. Dio, amando l’umanità di un amore eterno, mantiene la sua promessa e invia sulla Terra il suo Figlio per salvare l’infido alleato. E a ricordare che il demonio è sempre pronto a disturbare i piani divini interviene il serpente “che cammina per il muro”. 

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