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Il SANTO PROPOSITO

Il SANTO PROPOSITO

Meditazione di apertura del XL° Capitolo Provinciale Roma 13-17 Luglio 2020

 p.Armando Genovese msc

Le piccole cose che ho elaborato per voi, all’inizio di questo Capitolo Provinciale, sono insieme considerazioni che partono dall’esperienza, elementi che vengono dallo studio che accompagna buona parte della mia vita, sintesi dell’importante documento che abbiamo ricevuto per la preparazione del Capitolo Generale del 2017, e insieme esortazione ai carismi più grandi, come direbbe san Paolo (1Cor 12,31).
Vi dico subito che sul tema della vita religiosa o, se preferite, vita fraterna in comunità, la nostra Provincia religiosa soffre di una patologica e inveterata confusione con la vita presbiterale. Si tratta di un equivoco che è stato espresso in maniera esemplare nel n. 7 dei Lineamenta in preparazione al Capitolo Generale del 2017 («Noi amiamo come Gesù ha amato»):

Oltre a non apprezzare la dimensione internazionale, molti Missionari del Sacro Cuore non si rendono conto che siamo un gruppo di religiosi nella Chiesa. Non siamo un gruppo di sacerdoti né siamo un gruppo di sacerdoti con qualche fratello laico in aggiunta. Se così facciamo, abbiamo una crisi di identità! In alcune realtà abbiamo limitato la nostra operatività ai ministeri ecclesiastici (parrocchie) e siamo visti (da noi stessi e dagli altri) come “sacerdoti diocesani”. Ora, la vocazione ad essere sacerdote diocesano è legittima nella Chiesa, però non è la nostra vocazione! Questo atteggiamento ci condiziona quando vogliamo discernere il nostro futuro. Se non siamo chiari su chi siamo, come possiamo essere chiari su dove vogliamo andare? Mentre la maggior parte di noi insiste nel dire di non voler essere troppo “clericale”, di fatto un certo numero di segnali ci dicono che lo siamo. Distinguiamo ad esempio tra formazione per i Sacerdoti e formazione per i Fratelli. Perché non parliamo preferibilmente di “formazione alla vita religiosa MSC?”. Noi diciamo che i nostri candidati sono nel “Seminario”, piuttosto di dire che vivono in una comunità MSC. Non si tratta di avere minore considerazione per il sacerdozio, si tratta di avere maggiore stima per la vita religiosa in quanto Missionari del S. Cuore».

1. Il santo proposito.

Una prima domanda che faccio a voi, e a me, è questa: perché siamo diventati Missionari del S. Cuore? Che cosa abbiamo intuito di grande, di alto, di bello, di sublime, che ci ha portati a fare una scelta così impegnativa? Sembrano domande scontate, ma non lo sono affatto: non soltanto perché, come dicono a Napoli, «c’o tiempo ogne scarpa addeventa scarpone», ossia tutto invecchia, le scarpe diventano pantofole, e anche le scelte più grandi tendono ad accomodarsi in un orizzonte di comprensione favorevole. Ma anche perché negli antichi stili formativi, si sottolineava soprattutto l’aspetto personale: la tua scelta, i tuoi voti, il tuo sacrificio, la tua dedizione.
S. Agostino pensa che, prima di tutto, prima ancora dei voti, ci sia il grande voto, che lui chiama il santo proposito, ossia una professione di santità che un uomo o una donna fanno in una determinata comunità, e che ha come requisiti i voti religiosi.

È una scelta libera che nasce nel cuore dell’uomo in risposta a una mozione dello Spirito Santo. È una scelta d’amore, che fa decidere l’uomo a considerare la sua vita, da un certo momento in poi, come vincolata a Dio nella comunità religiosa. S. Agostino, addirittura, non parla esplicitamente di voto di povertà o di obbedienza. Parla soltanto di voto di verginità, e soprattutto del grande voto di vita comune.
A me sembra che in questo ci sia un’occasione importante di riflessione; quando pensiamo e riflettiamo sulla nostra vocazione, dobbiamo intenderla anzitutto in questo modo: il Signore ci ha chiamati alla santità nella comunità. Il primo discernimento che abbiamo davanti è la capacità e l’impegno che mettiamo nel costruire tale realtà. Non solo: dobbiamo essere uno stimolo, anche forte, perché la comunità risponda in questo modo. Non avrebbe senso fare voto di santità in comunità a prescindere dalla comunità stessa.

 

Cfr Conf. 9,6,14. S. Giovanni Paolo II, Augustinum Hipponensem. Lettera apostolica nel XVI centenario della conversione di sant’Agostino, I.

2. Un impegno definitivo, radicato nel cuore.

Nella visione patristica, viene costantemente ricordato il caso biblico di Lot, collegato alla parola di Gesù, sull’impegno di non volgersi indietro, bensì di perseverare nel santo proposito. Sant’Agostino ripete continuamente che ogni uomo è libero di fare o non fare una scelta, soprattutto così impegnativa. Però, una volta fatta, una volta che questa promessa è stata ricevuta dalle mani di Dio, essa acquista un carattere di definitività.
Chi realmente ha fatto discernimento e ha scoperto in sé una chiamata di Dio, viene lentamente trasformato, e quel che fa acquista una specie di automatismo dentro di lui, non è più soggetto a riflessione e a lotta interiore.

«è all’inizio della nostra rinuncia che dobbiamo adoperarci per acquistare la virtù, sobbarcandoci alla tribolazione e ad ogni amarezza; man mano che progrediremo la vivremo con nessuna o poca pena».

Quando questo non accade, quando cioè la vita fraterna continua a risultarci faticosa, fonte di dubbi e di incertezze, di fatica, occorrerebbe riflettere sul perché: se è un demonio che lo fa per metterci in difficoltà (non è da escludere), se è il segno di una maturazione ancora da acquistare, una maturazione, intendo, pacificata, serena, o se è stato fatto un errore di valutazione al momento dell’entrata in comunità.
Un passo di Guardini mi viene incontro con parole adatte, che spiegano il nesso tra interiorità e consacrazione alla fraternità:

«Il cuore è il centro vivo dell’uomo. In esso l’uomo ha il suo appoggio; per mezzo suo egli si rinnova sempre. Là l’istinto sale alla spiritualizzazione, e lo spirito entra nell’incarnazione. Con l’amore. Il cuore è l’amore come organo vivo. L’uomo diventa tale per opera dell’amore. Ciò che sta fuori della sfera splendente dell’amore diviene inumano: perde l’altezza e l’interiorità, cioè quei due rapporti secondo i quali si allinea l’asse dell’umano.
Naturalmente, a questo punto, dovrebbe seguire una “critica del cuore”; poiché non basta che il cuore si faccia valere; esso deve purificare e trasformare sé stesso. Anch’esso è minacciato da pericolo: l’essere limitato in se stesso; la sentimentalità, che non prende sul serio né la realtà dello spirito, né quella del corpo e dei sensi; la superiorità del sentimento che si crede infallibile, mentre anche il cuore può errare, anzi, anche più profondamente e fatalmente; è più difficilmente istruibile dell’intelletto, perché confonde tanto facilmente l’immediatezza della sua esperienza con la verità. Anche nel cuore c’è il peccato; e se soltanto “coloro che sono puri di cuore guardano Dio”, allora soltanto il puro e il libero -cioè il cuore liberato dall’egoismo, anche da quello più fine degli istinti- è capace di adempiere a quella funzione della sfera mediana […].
Dipende, in buona parte, dal fatto che questo umanizzarsi dello spirito e della sensualità si compia nello spazio e nel raggio d’amore del cuore, se, come e fino a che punto le forze spirituali ed istintive entrano nella religiosità, costruendo o distruggendo, pure o torbide; davvero trasformate […] o soltanto travestite e mascherate.
Da ciò dipende, in gran parte, se l’esistenza religiosa è genuina, pura, benefica oppure violenta, non naturale ed ambigua. La prima cosa che la religiosità deve operare, è di appropriarsi dello spazio del cuore, di destare il centro, d’impadronirsi della forza dell’amore. Allora lo spirito giunge fino al sangue e diviene anima. La corporeità giunge nella sfera d’azione dello spirito e diviene corpo; ed ambedue, divenuti umani, possono essere confacenti alla vita religiosa».

 

1 Giovanni Climaco, La scala del Paradiso, Roma 1996, 48.
2 R. Guardini, La conversione di sant’Agostino, Morcelliana, Brescia 1957, 58-60.

3. Una testimonianza d’amore.

Mi pare di dire quasi una banalità, quando ricordo che la vita fraterna trova la sua radice in quei resoconti delle prime comunità cristiane a Gerusalemme. Questo si deve intendere non nel senso che quelle comunità vanno riproposte così com’erano, perché la cosa non avrebbe senso: ogni comunità, con le persone che la costituiscono, è un’entità unica e irripetibile. E neppure nel senso che le nostre comunità siano delle realtà perfette, senza lotta, divergenza di opinioni, diversità, la qual cosa è a dir poco ridicola: non lo erano nemmeno le prime comunità.
Le nostre comunità si appellano a quelle prime comunità nel senso che vogliono provocare una domanda: è possibile oggi vivere insieme ed imparare ad amarsi? Proprio oggi che si preferisce invece consumare l’amore? Le nostre comunità, insomma, hanno il coraggio di essere un punto interrogativo piuttosto che un punto esclamativo? Sant’Agostino lo ricorda con grande precisione: «Vivete dunque tutti unanimi e concordi e, in voi, onorate reciprocamente Dio, di cui siete divenuti il tempio».

Da un punto di vista contenutistico, mi sembra che il documento di preparazione al Capitolo Generale del 2017, ai numeri 13 e 14, esprimeva i motivi della comunità MSC con contenuti molto simili:

«Sperimentare di essere amati da Gesù. Si trova all’origine della vocazione del P. Chevalier ed è all’origine della nostra chiamata a seguire Gesù. Ogni giorno abbiamo bisogno di rivivere quell’esperienza ed esserne costantemente trasformati. «… Dal Cuore del Verbo incarnato, trafitto sul Calvario, io vedo sorgere un mondo nuovo …» (LeSacré-Cœur, Paris 1900, 145-146). La nostra vita spirituale e la preghiera si trovano all’origine della nostra missione. La nostra vita ha capacità di evangelizzare solo nella misura in cui venga vissuta in rapporto con colui che «mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). «Che cosa cercate?» chiese Gesù ai primi discepoli (Gv 1,38). È Gesù che stiamo cercando, all’inizio della nostra chiamata e ogni giorno della nostra vita. La nostra missione e il nostro ministero scaturiscono da questa esperienza di essere stati trovati, toccati e trasformati da Gesù.

Ancora, nel numero successivo:

«Comunità. Noi riceviamo e svolgiamo la nostra missione come gruppo. Noi viviamo e condividiamo la nostra esperienza di essere amati come gruppo. Anche gli impegni individuali nel ministero devono essere considerati nei termini di una comunità che testimonia l’amore che abbiamo imparato a conoscere e che ci manda per un servizio. È la comunità che invia e la comunità che agisce in ognuno di noi. Il ministero che coinvolge diversi confratelli che lavorano insieme deve essere apprezzato, perché dà maggiore visibilità al gruppo e la missione. Normalmente dobbiamo vivere e lavorare in gruppo (minimo due, meglio tre), in modo che sia presente l’elemento della testimonianza. Dal momento che il nostro ministero è comunitario, la formazione di nuovi membri, la formazione permanente di tutti i membri e la cura per i nostri malati e anziani sono sempre parte costitutiva del nostro piano per il futuro».

4. La comunanza dei beni.

La povertà è il primo obbligo contratto nella vita fraterna in comunità. Qualcuno di noi ha sperimentato un cambiamento rispetto alla sua vita precedente: magari nelle nostre famiglie di origine avremmo potuto stare meglio che in comunità. Per altri è il contrario: entrando in comunità hanno trovato per la prima volta quello che non avrebbero mai potuto avere.
Ringraziando il Signore, le nostre comunità hanno tutto quello che serve per vivere serenamente. Ma non è questo quel che conta: la povertà fa parte del voto di vita fraterna, e ne è espressione esteriore. A livello personale, non si tratta di rinunciare alla proprietà, ma piuttosto di mettere in comune quel che si possiede. Esiste poi una seconda povertà, che è propria di tutta la comunità, che consiste nella frugalità e nella semplicità che devono caratterizzare la vita di comunità.
Intendiamoci subito: il voto di povertà, come quello di castità e di obbedienza, in sé non è un valore, come non può essere un valore una rinuncia in quanto tale. Acquistano valore in base all’obiettivo positivo che si intende raggiungere. Nel contesto del santo proposito, di cui si diceva sopra, facciamo anche voto di povertà, castità e obbedienza; è il santo proposito che dà senso a questi voti, ossia il desiderio di santità e di sequela di Gesù Cristo. Altrimenti, i voti in sé non hanno senso.

A mio modo di vedere, la povertà in qualche modo ingloba anche la castità e l’obbedienza, che sono due altre forme di povertà, potremmo dire una povertà del corpo e delle sue pulsioni, e una povertà della mente e della sua autonomia. Povertà significa in altre parole libertà. La sua funzione consiste nel far acquistare la capacità di correre veloci, senza essere appesantiti; di volare, senza essere legati a terra. E certamente si può dire che raggiunge questo scopo, perché la liberazione dalle cose e dagli affanni della vita rende il cuore dell’uomo più sensibile a Dio e alle cose divine. La povertà è l’unica virtù capace di operare il miracolo di sostituire i beni propri con gli interessi di Gesù Cristo di dare il passo alla vita comune.
Per Agostino il discorso sulla povertà è di importanza assolutamente singolare: la povertà ha un po’ la funzione delle mura di una città. Quando queste crollano, si apre la porta per l’irruzione del nemico. è necessario, inoltre, dimostrare in modo palpabile ai fedeli che i servi di Dio non cercano una vita facile nell’agiatezza, ma esclusivamente il regno di Dio nella via del santo proposito.
Parlare di povertà non è un discorso economico. Se povertà significa condivisione, c’è ben di più che possiamo condividere nelle nostre comunità: sono capacità affettive, intelligenza, disponibilità. C’è uno che sa che cosa vuol dire avere attenzione compassionevole, capacità di ascolto, e questa è una forma di povertà. C’è un altro che ha studiato e sa mettere a disposizione degli altri la sua intelligenza e la sua capacità di ricerca. C’è un altro che vive uno stile profondo di preghiera e ne informa tutti gli altri con cui vive. Un altro ancora sa essere disponibile e sa risolvere i problemi, e questa è ancora una forma di povertà.
Accanto alla povertà di ciascuno, esiste la povertà di tutta la comunità. Questa non consiste nella rinuncia ai beni, ma nella frugalità e nella semplicità che deve animare la vita comune. La norma da seguire viene presentata nella Regola con parole inequivocabili: «è meglio avere meno bisogni, che avere più cose».
Agostino insiste sul fatto che la comunità deve provvedersi da sola il necessario per vivere. In casi eccezionali, quando la salute è poca, quando le occupazioni o l’insegnamento impediscono, si può anche chiedere aiuto ai fedeli, tuttavia non deve essere una norma.

5 Melius estenim minus egere quam plus habere (Regula 5).

5. La castità.

Di che cosa si deve parlare precisamente? Di castità? Di verginità? Di celibato consacrato? Già la profonda differenza nella terminologia ci mette di fronte a una difficoltà: accentuare di più l’uno o l’altro potrebbe significare operare delle profonde scelte ideologiche. S. Agostino ancora una volta ci viene incontro: spiega che quando si parla di castità, s’intende l’amore ordinato che sottomette ciò che è inferiore a ciò che è superiore. L’idea è questa: l’uomo è un essere che ama. Tuttavia, l’amore è un’arte difficile, nel senso che non necessariamente ordina l’anima verso Dio: quando l’uomo ama Dio al di sopra di tutto, allora l’amore tende fortemente verso Dio, e ogni cosa è subordinata a questa spinta; con il peccato, tuttavia, l’ordine viene stravolto, e tanta spinta viene impiegata per allontanarci da Dio. In un discorso pronunciato verso la fine della sua vita, sant’Agostino spiega con molta chiarezza lo sviluppo della questione:

 

«In questa vita ci sono due amori che lottano tra loro, l’amore del mondo, e l’amore di Dio; quello che vince, dei due, attira colui che ama come un peso. Infatti, noi andiamo verso Dio non con le ali o con i piedi, ma con gli affetti. E dunque non è con nodi fisici e catene, ma con affetti contrapposti che ci leghiamo alla terra».

Sicché la Chiesa, con le parole del Cantico, deve implorare: Mettete ordine all’amore dentro di me! Questo è il concetto di castità. Ma, come si vede, il concetto di castità non è qualcosa di proprio a chi ha fatto una scelta religiosa, si può parlare di castità anche all’interno del matrimonio. Castità è un altro modo per dire dominio di sé.
La verginità, invece, è una continenza più grande e più gloriosa. Con la verginità non solo si fugge da ciò che non è lecito, ma ci si priva anche di ciò che naturalmente sarebbe lecito. Da questo nasce l’equilibrio, la serenità, la potenza di attrazione che questa virtù normalmente esercita sulle anime. In realtà, ognuno di noi ha conosciuto delle persone trasformate dalla verginità, nel senso che sono diventate di una particolare bellezza, tali da incantare nell’aspetto e nei modi. Per conservare questo particolare dono che il Signore fa, i religiosi dispongono di efficaci aiuti: la vita comune, la carità e la correzione fraterna, e soprattutto l’umiltà.
Oggi si preferisce parlare di celibato consacrato. Probabilmente perché la parola celibato è più ampia, comprensiva, nel senso che ne possono far parte, per esempio, anche quelli che l’hanno scelto dopo un matrimonio. O per altri motivi che mi sfuggono.
Ritorniamo a quanto già detto. Si fa un solo grande voto di santità, un solo voto cioè di imitare Gesù Cristo. Facendo voto di verginità, pertanto, non si vuole fare altro che tentare di imitare l’unico nostro Signore. Il cuore di un uomo difficilmente rinuncia a un amore che lo appaga, che lo riempie, se non per un altro amore superiore; perciò, non si rinuncia a una dimensione dell’umano, che in nessun modo si può realizzare, bensì si fa in modo che la sequela di Cristo sia totalizzante, e comprenda anche l’aspetto fisico. Del resto, possiamo offrire a Dio qualcosa di più alto e di più bello del nostro cuore, che è il suo tempio?
Come si può facilmente immaginare, tutto questo richiede un lavoro preliminare proprio sul cuore. Ci sono quelli che scelgono la verginità non per amore di Cristo, ma per altre ragioni: liberazione dal peso del matrimonio, fuga dalle difficoltà della vita, o qualunque altro motivo di egoismo umano. S. Agostino usa parole forti, e dice che se sono queste le motivazioni che animano la scelta di vita, si è in peccato, come morti per Dio.
Ora, a parte la valutazione teologica o morale, ci sono anche motivi psicologici che vanno indagati: perché ci sono persone che fanno questo tipo di scelta senza esserne interiormente convinte? In fondo si tratta di scelte libere, nessuno è costretto a farle. Ed è poi così triste osservare in certe comunità persone tristi, che vivono questa consacrazione come un peso insopportabile, tanto per sé quanto per gli altri.
Nella mia piccola esperienza ho capito che la verginità dei religiosi dipende molto dalla loro storia, soprattutto dalla loro infanzia, soprattutto dal rapporto con i loro genitori, e dalla realizzazione dei loro progetti e dall’affermazione della loro personalità.

6 Discorso 344,1.

6. Casistiche di altri tempi.

Una volta si studiava tutta una casistica, perché faceva parte della mentalità antica un desiderio di inquadrare ogni possibile caso deviante. Si studiavano quindi quali erano gli sguardi buoni e quelli impudichi; come doveva essere l’andatura; chi bisognava salutare e chi no; con chi si poteva parlare, quanto si doveva parlare, di che cosa si doveva parlare; quante volte e come si poteva fare il bagno, e cose simili. Per non parlare di tutte le casistiche che riguardavano le vere e proprie deviazioni sessuali. S. Agostino fa sempre notare che la scelta della vita religiosa, e della verginità connessa, è una scelta libera: è un passo che bisogna fare con grande attenzione, e dopo che lo si è fatto va mantenuto con tutte le forze. Un peccato commesso dopo il voto, spiega il santo Vescovo, è molto grave, e non si può essere approssimativi su questo tema.
Ci sentiamo ovviamente molto lontani dalle casistiche che il nostro venerato confratello p. Clemente Talone scriveva nel celebre La castità perfetta. D’altra parte a livello ecclesiale c’è stata una tale incidenza di casi devianti negli ultimi anni, che un’attenzione a questo tema a livello di Provincia e di Congregazione non dovrebbe essere trascurata.

7. Un’obbedienza di amore

Non sarà male ricordare che obbedienza viene dal latino ob- davanti e audire- ascoltare, e quindi significa dare ascolto. Quando intendiamo obbedienza come fare ciò che gli altri vogliono, eseguire docilmente gli ordini e cose del genere, di per sé stiamo già ponendo un’interpretazione. Obbedienza è una virtù attiva, anzitutto, con cui ci si dispone all’ascolto dell’altro, riconoscendo nell’altro una presenza di Dio per me. D’altronde, il cuore della legge, della Parola, è lo Shemà Israel, fonte di ogni sapienza: dalla chiamata di Samuele («Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta», 1Sam 3,9), al primo comandamento secondo Gesù («Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore», Mc 12,29), tutta la Scrittura è un rimando della necessità di ascoltare. Il testo biblico sembra ricordare che nessuno di noi può dirsi compiuto in sé stesso, ha bisogno degli altri, ha bisogno di definirsi in base agli altri. Ascolto, vuole dire in qualche modo relazionalità. Obbedienza vuol dire rapporto con il Signore, mediato dal fratello.

I testi che ho consultato sono piuttosto differenti: Giovanni Climaco, ad esempio, ne fa uno dei primi gradini nella salita verso il Paradiso, con un lunghissimo discorso sull’importanza dell’obbedienza, in quanto il monaco riscontra nella sua guida una specie di incarnazione del Cristo, e il Superiore (o la propria guida personale) costituisce la possibilità di capire la propria chiamata e l’intercessore per i propri peccati. Sant’Agostino d’altra parte quasi non parla dell’obbedienza come di un voto formale, ma soltanto come di un mezzo per conseguire la vita comune perfetta. A dire la verità, sant’Agostino non ama neppure parlare di superiore, bensì di praepositus. Si parte da un piano di sostanziale uguaglianza, e in questo piano uno dei fratelli viene scelto per guidare gli altri, per evitare forze centrifughe o anarchiche facilmente riscontrabili all’interno delle comunità.

 

7. Praeposito tam quam patri oboediatur (Regola, 11).

8. Il precetto dell’obbedienza

L’obbedienza, stando a sant’Agostino, funziona se c’è una relazione filiale tra «Superiore» e «Sudditi». Questa relazione fa riferimento all’altra relazione filiale dell’uomo rispetto a Dio. L’obbedienza per sant’Agostino nasce quando il religioso si confronta alla comunità. Una comunità non si concepisce senza un’autorità, e questa non è tale se non viene esercitata nell’amore; tuttavia, il modello dell’autorità non è il despota, bensì il padre: «Si obbedisca al preposito come a un padre».Nell’obbedienza il religioso sperimenta una famiglia. Il preposito esercita una paternità che ha la sua radice in Dio, al quale deve rendere conto di tutti i suoi atti. Egli è il padre di famiglia della comunità, i monaci i suoi figli. L’obbedienza secondo Agostino è fatta di grazia e amore, non di forza, violenza o sopruso. Ma decidere di amare Dio attraverso il Superiore, questa è libertà genuina. Per questo, il religioso deve obbedire al preposito come a un padre, non come un servo sotto il peso della legge, ma come un essere libero guidato dalla grazia. La sua obbedienza deve tendere sempre a rendere meno grave la responsabilità del superiore, operando liberamente e spontaneamente per amore di Cristo. Un’obbedienza concepita in questo modo, cioè motivata dall’amore e dalla venerazione, è splendida, e fonte di ricchezza spirituale.

Si tenga presente, inoltre, che nella stessa vita spirituale è indispensabile un’umile obbedienza alla volontà di Dio, anche per evitare altri problemi o incidenti.

«Severino, uomo di Dio, mosso da una rivelazione, inviò un cantore della chiesa, di nome Moderato, ad ammonire gli abitanti ad andare via da quel luogo in tutta fretta: sarebbero presto periti, se non avessero tenuto in conto i suoi comandi. Ora, per alcuni un così grande presagio era motivo di turbamento, altri invece non ci credevano affatto. E così mandò loro un nuovo messaggero, un uomo di Quintanae, al quale disse, piangendo: “Va’ in fretta e dichiara loro che se rimangono là questa notte, senz’altro verranno fatti prigionieri! Comanda che sia avvertito urgentemente anche quel santo prete di vita spirituale, Massimiano; che almeno lui, lasciando da parte i derisori, si affretti a mettersi in salvo per la misericordia del cielo”. […] L’uomo si mise in cammino, e compì la sua missione. Alcuni, nella loro incredulità, non riuscivano a decidersi, e il prete cercava di trattenerlo e di offrirgli la cortesia della sua ospitalità, il messaggero non si fermò neanche per riposare. Proprio quella notte gli Eruli fecero un improvviso assalto, inaspettato, saccheggiarono la città, e condussero tanti prigionieri, e appesero il già citato prete a un patibolo. Quando udì queste notizie, il servo di Dio Severino rimase profondamente addolorato perché i suoi avvertimenti erano stati trascurati».

9. Prospettive

Ricominciare dalla comunità.
Il Capitolo Generale 2017 notava che la storia della Congregazione ci ha portati ad essere divisi in Province quasi autonome, e individuava questa come la problematica più importante che ci troviamo ad affrontare. Dice il testo, al n.6:

«Molti, se non la maggior parte, dei confratelli si considerano membri della Provincia belga o dell’Unione indiana o della Provincia Australiana … e non Missionari del Sacro Cuore in una Congregazione internazionale presente in più di 50 paesi…. Mentre praticamente tutti riconoscono l’evidenza di questa situazione, per la soluzione c’è bisogno ancora di discernimento. La risposta non si trova nel dare più “potere” o “autorità” all’Amministrazione Generale: il n. 199 [201] delle Costituzioni è già chiaro in proposito! Il problema si trova nel modo in cui vediamo noi stessi, nel modo in cui comunichiamo e

siamo pronti a collaborare con gli altri. Dobbiamo pensare nei termini di una Congregazione internazionale ed essere interessati alle altre province come lo siamo alla nostra. La maggior parte dei confratelli sanno molto poco di altre Province e della loro realtà. Quando sentiamo domande come: “Siamo presenti in Africa?”, oppure: Chi erano i “martiri di Langgur?”, e: “Chi era Giovanni Genocchi, o Ted Harris, o Juan Alonso?”, ci rendiamo conto che siamo divisi in gruppi all’interno della Congregazione».

Tanto per fare un esempio, aiuterebbe molto il senso dell’internazionalità una disponibilità maggiore a conoscere le lingue, non soltanto nel senso di una conoscenza acquisita, quanto come propensione verso l’altro. E poi una comprensione della realtà delle altre Province, pubblicazioni, siti web.
Questo non vale soltanto per le province, nel rapporto con la congregazione intera, vale anche per le comunità all’interno delle province e anche per i singoli membri all’interno delle comunità, e se non si riesce a crescere in questo, se esiste un impedimento, questo ha un nome ben chiaro: individualismo, e a questo abbiamo anche una soluzione: ricominciare dalla comunità.
Papa Francesco prende atto che si tratta di rischi e limiti derivanti anche dalla cultura del nostro tempo: «L’ansietà nervosa e violenta che ci disperde e debilita; la negatività e la tristezza; l’accidia comoda, consumista ed egoista; l’individualismo, e tante forme di falsa spiritualità senza incontro con Dio che dominano nel mercato religioso attuale».

La vita religiosa è stata sempre un’eccellenza all’interno della Chiesa, il luogo in cui si vivono in maniera esemplare delle virtù che sono proprietà di tutti. La preghiera e il lavoro, secondo il motto di san Benedetto, l’intelligenza spirituale, la prossimità agli ultimi, la testimonianza della parousia di Cristo. D’altra parte, sono proprio questi i valori di cui l’umanità oggi ha bisogno, e quelli sui quali le nostre comunità devono recuperare qualcosa di significativo.


Diminuzione dei membri.

Un’altra sfida che proviene dalla realtà in cui viviamo è la diminuzione del numero dei membri in buona parte della Congregazione. Il diminuito numero di appartenenti costituisce una difficoltà. Ci rendiamo conto che dobbiamo abbandonare qualcuna (o qualcosa in più) delle nostre opere. Siamo chiamati a prepararci ad un futuro che potrebbe non piacerci. La prima cosa che bisognerebbe osservare di fronte a questa evidenza è che non bisogna aver paura di morire: storicamente, la nascita di un istituto religioso è sempre stata una risposta carismatica a una particolare esigenza della Chiesa in un dato momento storico. Un nuovo carisma non nasce in un vuoto culturale. Gratia supponit naturam, studiavamo nella filosofia: quando le circostanze sociali cambiano e viene assunta da altri l’opera dei religiosi nei settori dell’istruzione o della sanità, questo avrà conseguenze per gli istituti religiosi. Quando questo accade, possiamo dire a noi stessi: abbiamo svolto un eccellente e importante compito in un luogo/tempo particolare della storia, e ora questo lavoro viene portato avanti da altri. Potremmo affermare: «missione compiuta», con orgoglio per l’importanza del ruolo svolto, e non senza un pizzico di nostalgia.
D’altra parte non possiamo pensare che la storia vada avanti perpetuando quello che noi facciamo o abbiamo fatto. Altrimenti diamo spazio a un’altra tentazione stigmatizzata da Papa Francesco, la tentazione della sopravvivenza:

«Un male che può installarsi a poco a poco dentro di noi, in seno alle nostre comunità. L’atteggiamento di sopravvivenza ci fa diventare reazionari, paurosi, ci fa rinchiudere lentamente e silenziosamente nelle nostre case e nei nostri schemi. Ci proietta all’indietro, verso le gesta gloriose – ma passate – che, invece di suscitare la creatività profetica nata dai sogni dei nostri fondatori, cerca scorciatoie per sfuggire alle sfide che oggi bussano alle nostre porte. La psicologia della sopravvivenza toglie forza ai nostri carismi perché ci porta ad addomesticarli, a renderli “a portata di mano” ma privandoli di quella forza creativa che essi inaugurarono; fa sì che vogliamo proteggere spazi, edifici o strutture più che rendere possibili nuovi processi. La tentazione della sopravvivenza ci fa dimenticare la grazia, ci rende professionisti del sacro ma non padri, madri o fratelli della speranza che siamo stati chiamati a profetizzare. Questo clima di sopravvivenza inaridisce il cuore dei nostri anziani privandoli della capacità di sognare e, in tal modo, sterilizza la profezia che i più giovani sono chiamati ad annunciare e realizzare. In poche parole, la tentazione della sopravvivenza trasforma in pericolo, in minaccia, in tragedia ciò che il Signore ci presenta come un’opportunità per la missione. Questo atteggiamento non è proprio soltanto della vita consacrata, ma in modo particolare siamo invitati a guardarci dal cadere in essa».

Reclutamento e Formazione
Negli ultimi anni ci siamo fatti un vanto di essere tra le poche Province che hanno nuovi ingressi. Potrebbe essere vera questa affermazione da un punto di vista numerico, ma ci sono problematiche importanti che non vanno trascurate. Un tempo si entrava in comunità da giovani, e il tempo della formazione era realmente il tempo della crescita sotto ogni punto di vista: il candidato imparava a conoscere sé stesso e la comunità, e altrettanto avveniva da parte della comunità che lo accompagnava. Era un tempo di vero cammino.
Oggi tutti i candidati arrivano da noi con un importante e imprescindibile vissuto personale. Storie di successi e di insuccessi previ all’entrata nella vita comunitaria, a livello psicologico, economico, relazionale, affettivo, non possono non avere incidenza con la quotidianità dell’esperienza spirituale. Ognuno è portatore di una storia personale: io sono la mia storia. Nella misura in cui tale storia viene a identificarsi con quella della comunità, questo può essere un valore, altrimenti viene a costituire un problema.
Il discernimento in questo contesto è più difficile, e richiede a noi di non essere superficiali. Se in passato è capitato di aver accettato candidati provenienti da seminari diocesani, con mentalità e obiettivi loro propri, si rende necessario per la loro valutazione e per la loro formazione alla vita religiosa, un’attenzione specifica e appropriata, per diventare familiari con il carisma della nostra famiglia religiosa, e della vita fraterna che abbiamo professato.
Oltretutto, partendo dall’equivoco di cui abbiamo detto all’inizio, ossia della confusione tra vita religiosa e presbiterato, rischiamo di mettere le basi per importanti difficoltà future, che vengono anche dal fatto che quasi tutti hanno abbandonato seminari diocesani, ma non la mentalità e gli obiettivi che in tali seminari hanno ricevuto.
La vita religiosa è stata da sempre un fenomeno laico, che non ha nulla a che vedere con l’ordine sacro. «Fuggi le donne e i vescovi», così Giovanni Cassiano ammoniva i monaci, e non tanto per la tentazione muliebre, cosa che i monaci sapevano benissimo, ma per evitare di diventare clero con una nuova obbedienza conflittuale a quella comunitaria.

Ubique terrarum.
Il documento di preparazione al Capitolo generale recita, al n. 16:

«La parola “dappertutto” del nostro motto/missione non ha soltanto un senso geografico: significa anche che ci dirigiamo verso tutte le culture, tutte le categorie di persone – nessuno viene escluso. Ci invia anzitutto ai poveri e agli emarginati, ai “piccoli” che tanto riempiono di compassione il Cuore di Cristo (Cost. n. 6). Di qui la “periferia” in tutta la sua realtà, è un punto di riferimento per il nostro ministero. La storia, che ci ha condotto in aree remote del Rio delle Amazzoni, nelle profondità della giungla sulle rive del fiume Tshuapa, alle isole lontane di Kiribati e nelle parrocchie dilaniate dalla guerra di Mindanao, ora ci chiama a sfide ancora maggiori nelle nostre città e tra gli immigrati ed emarginati in tutto il mondo».

 

Mentre combattiamo strenuamente per conservare presidi territoriali stanziali, come le parrocchie, non possiamo tralasciare il fatto che la Vita Religiosa sia stata sempre movimento di eccellenza per l’evangelizzazione, la cultura, la spiritualità, e non può essere diversamente per il futuro. Non possiamo accontentarci di trascorrere un giorno dietro l’altro e non tenere presente che siamo chiamati oggi, non ieri e neppure domani, a testimoniare il Cuore di Cristo. Siamo chiamati a far conoscere dappertutto il Cuore di Cristo; le opere della nostra Provincia Religiosa e la nostra vita devono essere sottoposte all’unico criterio di discernimento che si chiama Gesù Cristo.
Ovviamente, far conoscere dappertutto il Cuore di Cristo non significa fare girare immagini melense di Gesù con un cuore in mano o ripetere ossessivamente litanie. Karl Rahner osservava, nella prefazione ad un libro ormai classico, che «la dottrina spirituale non dev’essere solo una questione di esperienza pratica e di entusiasmo del cuore, ma va anche accompagnata da quella riflessione critica che chiamiamo scienza. Una scienza dello spirito e, in particolare, una scienza teologica non può far a meno della conoscenza della storia della propria vita. Solo occupandosi permanentemente del proprio passato essa acquisisce, nei confronti del proprio oggetto, quell’ampiezza di vedute e quell’apertura, che la rendono capace di giudicarlo in maniera adeguata e di garantirgli un futuro».

«Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gn 4,9)
Siamo tutti reciprocamente responsabili e custodi dei nostri fratelli, specie di quelli più deboli, perché siamo «radunati in Cristo come una sola peculiare famiglia» e i legami di fraternità devono essere coltivati con lealtà in modo da creare «per tutti un aiuto reciproco nel realizzare la vocazione propria di ciascuno» (CJC 602). Prima del Diritto Canonico lo diceva già san Paolo, in un passo che bisognerebbe rileggere spesso: «Portate i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2).
Di fronte al venir meno della perseveranza di tanti fratelli e sorelle, che con generosità avevano intrapreso la via della sequela, possiamo diventare giudici severi, mettendo in rilievo difetti e fragilità che non sono stati affrontati nella maniera giusta, sia per cause personali, sia per cause istituzionali, ovvero per responsabilità collettive. Siamo spesso davanti a un groviglio di concause e responsabilità: non solo presenti, ma rintracciabili anche nel passato, e alle quali non è facile porre efficace rimedio. Non solo chi se ne va deve porsi serie domande sul perché di un venire meno della propria scelta vocazionale, ma anche chi resta deve porsi domande serie sullo stile coerente del suo rimanere.

Il tempo si è accartocciato
Il dramma del Covid-19 ha messo in luce, oltre alle problematiche mediche, anche peculiari inconsistenze nelle nostre comunità. Paure, limiti, ossessioni, chiusure, in un tempo che poteva essere di grazia e di crescita. Mai come in questa speciale congiuntura siamo stati chiamati a diventare consapevoli della reciprocità che sta alla base della nostra vita, ad accorgerci che ogni vita è vita comune, è vita gli uni degli altri, degli uni dagli altri. È il numero 28 delle Costituzioni del resto che ce lo ricorda: «La stessa vocazione e la stessa missione ci riuniscono in comunità: espressione di quella comunione di fede, amore e adorazione che è propria della Chiesa, nella quale tutti sono figli di Dio, fratelli e sorelle in Cristo. Il modo con cui viviamo la nostra vita comunitaria dovrà testimoniare questa realtà».
Nella prima lettera ai Corinzi, san Paolo ha un’espressione efficace: «Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve» (1Cor 7,29). Nel greco della lettera san Paolo adopera un verbo di uso marinaresco, συστέλλω, ammainare, riporre le vele. Il tempo si è accartocciato, come una vela che viene abbassata dopo un lungo viaggio in mare: quando si arriva in porto le vele vengono legate, perché, ormai, la nave è arrivata e si ferma. Ormai, dice san Paolo, siamo arrivati alla fine della navigazione. Ora, proprio in rapporto a questo restringimento del tempo, i criteri interpretativi della realtà che ci riguarda, sono intrinsecamente mutati. I criteri, proprio in vista del fatto che il tempo si è imbrogliato, si è ristretto, si è abbreviato, portano a una nuova configurazione alla quale non ci possiamo sottrarre, è in gioco il significato stesso dell’esperienza carismatica della vita fraterna in comunità dei Missionari del Sacro Cuore.

Ametur ubique terrarum Cor Jesu Sacratissimum

 

8. Eugippio, Vita di Severino, 24 (Testi patristici 195, Città Nuova, Roma 2007, 92-93).
9 Papa Francesco, Es. Ap. Gaudete et exsultate, (19 marzo 2018), 110.
10 Papa Francesco, Omelia in occasione della XXI Giornata Mondiale della vita consacrata, 2 febbraio 2017.
11 Istituzioni cenobitiche 11,17 (PL 49,418).
12 M. Viller – K.Rahner, Ascetica e mistica nella patristica. Un compendio della spiritualità cristiana antica, Brescia 1991, 13.
13 La Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica da anni affronta questa emergenza, come si può vedere nel recentissimo: Il dono della fedeltà. La gioia della perseveranza. Orientamenti, uscito ad aprile 2020 (ISBN 978-88-266-0390-2).

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